Da parte di madre by Federica De Paolis

Da parte di madre by Federica De Paolis

autore:Federica De Paolis [De Paolis,Federica]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Feltrinelli Editore
pubblicato: 2024-03-26T00:00:00+00:00


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Mia madre aveva messo a punto un piano. Me lo aveva comunicato in Puglia, era l’estate del 1983, il Selvaggio era distratto dai fratelli. Con le gambe sul bagnasciuga, le mani affondate nella sabbia infuocata, mi aveva sussurrato: “Fra tre giorni io e te torniamo a Roma. Lui resta qui un’altra settimana. Appena arrivate prepariamo le valigie, andiamo in una casa nuova. È piccola, ma molto carina. Abbandoniamo via del Pellegrino, svuotiamo tutto, non ci troverà mai”. Aveva intrecciato le dita alle mie, e mi aveva fatto l’occhiolino. “Stai attenta, non una parola.” Non potevo credere alle mie orecchie. Davvero era riuscita a fare tutto questo? Lottava per la libertà? La mia, la sua. L’avevo abbracciata senza dire nulla, poi ero rimasta in silenzio, cominciando ad arrovellarmi sui dettagli. Avrei dovuto lasciare la mia scuola? (All’epoca ero in seconda media.) I miei amici? Neracomelapece? (Che era sopravvissuta nella mia vita dai tempi delle elementari.) Il mio primo fidanzatino? (Avevo passato l’ultimo anno baciandolo senza mai respirare.) Che ne sarebbe stato della terza media, le relazioni, il mio piccolo pianeta che avevo conquistato a morsi? Dov’era la nuova casa?

Avevo chiesto tutto appena eravamo salite in macchina, mia madre aveva una risposta per ogni domanda. Non voleva cambiarmi scuola, prometteva che mi avrebbe tenuta al mio posto fino alla terza media. Il nuovo quartiere era lontano, a nord della città, la casa era confortevole, avremmo iniziato una nuova vita. Quel viaggio era stato indimenticabile: mi era parso improvvisamente che tutti quegli anni di silenzio e assenso al delirio fossero spazzati via in un sol colpo. Lei non era più una vittima sacrificale, ma un’eroina scaltra e veloce, una donna tutta d’un pezzo, una madre che salvava se stessa e sua figlia dalle violenze domestiche, con quattro inverni di ritardo e centinaia di ceffoni scolpiti sulle guance eppure ce l’aveva fatta, ci stava mettendo in salvo.

Eravamo arrivate la sera, stanche e accaldate. Avevamo dormito insieme, una cosa che non accadeva mai. Ero eccitata e felice. La libertà era a un soffio. Il mattino dopo erano arrivati i traslocatori, cinque bisonti che avevano infilato l’intera casa in degli scatoloni, appendevano i vestiti in apposite scatole-armadio, imballavano libri alla velocità della luce, incartavano posate, piatti e scodelle grazie a un’articolata catena umana, mentre io scrivevo sulle scatole di cartone cosa contenevano. Ci erano voluti due giorni. Tre camion, due dei quali erano partiti verso una direzione misteriosa, nella casa nuova entravano poche cose. Avevo guardato il grande appartamento disabitato, segnato dalle nostre presenze: gli aloni dei quadri, i fori delle applique, le sagome dei mobili appoggiati alle pareti, una porta sfondata da un gancio che le aveva assestato il Selvaggio un mattino, per risparmiare mia madre. Sentivo una strana beatitudine che seppelliva una vena nostalgica. Quel trasloco definì un sentimento che sarebbe tornato ad libitum: andare via significa rinascere. Ricordo l’esaltazione di attraversare Roma seduta accanto a uno dei Bisonti, in alto, sul camion. L’arrivo sulla collina che somigliava a un mondo finto, un Truman



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